lunedì 28 dicembre 2009

Ecco proviamo...

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Buon giorno, buon nuovo anno, con musica gitana possibilmente..

Il vertice di Copenhagen sul Cambiamento Climatico (COP15) è finito. L’accordo conclusivo firmatonon è tuttavia un trattato vincolante come avvenne per il protocollo di Kyoto, dove la riduzione di gas serra prevista per ogni nazione era ratificata. Le trattative continueranno. Non si sa se o in quale misura verrà prodotto un accordo definitivo. Possiamo però formulare qualche giudizio provvisorio, per chiudere il nostro Speciale Copenhagen.

Primo.
Il problema del Cambiamento Climatico è oggi riconosciuto a livello mondiale. L’obiettivo dell’accordo di Copenhagen è contenere l’aumento della temperatura media al di sotto dei due gradi. L’accordotuttavia non è vincolante in quanto non contiene numeri né impegni specifici per politiche nazionali.

Secondo.
L’obiettivo di rimanere sotto idue gradi di riscaldamento globale senza definire una concentrazione limite odei limiti sulle emissioni non ha molto senso: chi stabilisce poi la correlazione esatta fra emissioni e temperatura? Stabilire direttamente target di emissioni sarebbe stato molto più utile e concreto.

Terzo.
I paesi in via di sviluppo si impegnano a comunicare ogni due anni le loro emissioni all’UNFCCC, seguendo metodologie condivise. Ogni controllo su questi dati però è esplicitamente domestico e un possibile controllo internazionale è previsto solo per i progetti di mitigazione che ricevono finanziamenti internazionali. Insomma, i Paesi emergenti, Cina in testa, sembrano tuttora più preoccupati della loro crescita che del cambiamento climatico. E continuano ad avere, nei confronti dei Paesi industrializzati, l’ottimo argomento delle nostre responsabilità storiche e dell’ingiustizia sociale.

Quarto.
Nel merito dell’accordo e suoi dintorni, vanno segnalati con soddisfazione due fatti specifici che dovrebbero manifestarsi negli impegni specifici da pubblicare nel mese di gennaio 2010. Il primo è che il Brasile limiterà le sue emissioni a quasi il 40% entro il2020 e si impegna seriamente sul controllo della deforestazione (REDD). Il secondo fatto è che anche la Cina opererà una riduzione volontaria delle emissioni: meno 40% rispetto ai livelli del 2005 della carbon intensity. Pur rimanendo il problema dei controlli, è la prima volta che la Cina si impegna in un accordo internazionale per la salvaguardia dell’ambiente.

Quinto.
L’Unione Europea è stata sostanzialmente ignorata nelle negoziazioni di Copenhagen. L’accordo è stato raggiunto in “zona Cesarini” e guidato dai G2 – USA per i paesi industrializzati eCina per i paesi emergenti, con il rinforzo di India e Brasile. L’unico commento possibile è, ahimé, “chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Non sono infatti nuove le lamentele dell’Unione Europea per la scarsa considerazione nelle trattative internazionali. Tuttavia questa situazione è la logica conseguenza del fatto che i primi a non credere in una reale unità europea sono proprio i governi nazionali europei, forsanche larga parte degli stessi cittadini. Le recenti nomine europee, tutte al ribasso, sono lì a dimostrarlo. Considerato che le politiche e l’impegno europei sul clima sono i più ambiziosi e rispettosi dell’ambiente, la sconfitta diplomatica dell’Unione Europea brucia ancor di più.

Sesto.
L’accordo di Copenhagen evidenzia come nel 2009 contano più i governi nazionali degli organismi sovranazionali. Il multilateralismo invocato più volte da Obama non ha ancora una struttura di “governo mondiale” per funzionare. Esso rischia quindi di tradursi in una babele di discussioni, di veti incrociati fra nazioni, e nella prevalenza di fatto del G2 per prendere le decisioni. Vanno però notati alcuni processi di “regionalizzazione”, come la presenza dell’Unione Africana al tavolo delle trattative climatiche a Copenhagen, o il ruolo del blocco sudamericano, che possono andare nella direzione di un multilateralismo per grandi aree geografiche di influenza.

Settimo.
L’accordo di Copenhagen dovrebbe dare il via ad un processo di negoziazione che si dovrebbe estendere in tutto il 2010. Ambo i paesi industrializzati e quelli di sviluppo presenteranno i loro obiettivi unilaterali di riduzione delle emissioni per fine gennaio 2010. Seppur unilaterali, questi obiettivi saranno certamente soggetti a trattative. Qualora un quadro coerente e soddisfacente dovesse presentarsi, questi impegni sarebbero la base per ulteriori discussioni internazionali, probabilmente in ambito ONU, al meeting di Bonn tra 6 mesi. Non è impossibile che, alla fine, si giunga ad un nuovo trattato che includa tutte le parti. Un trattato COP16 in Messico potrebbe essere il risultato finale e positivo.

In sintesi.
Come già detto, l’accordo siglato non fissa alcun dettaglio sul come raggiungere l’unico obiettivo quantificato – limitare il riscaldamento globale ai due gradi centigradi.Le soluzioni tecnologiche al problema ambientale-energetico sono oramai mature e concrete, tanto da non essere nemmeno più in discussione. La riduzione delle emissioni di gas serra è ottenibile attraverso l’accoppiata efficienza energetica-fonti rinnovabili, la prima più conveniente nel breve termine rispetto alla seconda. Tuttavia, per ciò che concerne i principali settori economici mondiali – trasporto, industria, riscaldamento e agricoltura – gli attuali prezzi di libero mercato rendono sistematicamente non competitive buona parte delle tecnologie rinnovabili o a maggior efficienza energetica rispetto alle soluzioni tradizionali ad alta emissione di CO2. La sfida da affrontare nel post-Copenhagen si paleserà dunque ben presto in come trasformare la riduzione di CO2 in politiche concrete – policy nette e precise di stimolo fiscale, industriale, culturale e di supporto alla ricerca. Rifiutare accordi di tipo ambientale o perseguire il business-as-usual significa assumersi la responsabilità di una politica distruttiva per il pianeta. Il nostro futuro non è roba da battutine o slogan televisivi. E’ bene ricordarlo.

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